Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
Una famiglia unita viene sconvolta dal ritorno del figlio pilota in compagnia di una fanciulla francese. Godibile commedia ambientata negli Anni Venti che si segue tutta d'un fiato e in cui ad avere un ruolo molto simpatico è il piccolo Fraser, mentre gli altri personaggi catturano comunque l'attenzione essendo ben tratteggiati. Le location sono belle, il ritmo abbastanza regolare, trucco e costumi sono curati, il cast offre una prova convincente, il finale non dispiace, ma ciò che più colpisce è la contagiosa ventata di freschezza di alcune sequenze. In conclusione, non male.
Disastroso tentativo di Andolfi che prova a mischiare mafia movie, horror e sceneggiata di stampo napoletano con risultati ridicoli. Di una pochezza disarmante, non funziona praticamente nulla se non qualche momento involontariamente comico. Andolfi scrive, interpreta, monta, dirige e fa tutto molto male. Script delirante, cast in pessima vena (dispiace per Mitchell) e una delle trasformazioni in lupo mannaro più ridicole della storia del cinema. Il flashback di cinque minuti dopo mezz'ora di film è al limite del geniale, nella sua insensatezza.
Tutto tranne che un thriller, questa confusionaria commedia trash è ricca di battute grossolane, qualche nota nera ed estemporanei siparietti sexy annunciati dall'immancabile sassofono che in quegli anni era quasi imposto per legge. Tutto ruota intorno a quella favolosa epoca rampante in cui era di gran moda vivere a credito al di sopra delle proprie possibilità. I registri sono molti, troppi; tanti quanti le "signore per bene". Ne esce un pasticcio fumoso privo di sapore e forma. Uno strano aggeggio che ti ritrovi fra le mani e del quale fatichi a comprenderne l'utilità.
Il solito slasher natalizio contro l’istituzione della santa festività? Assolutamente no. Il terzo capitolo sulle prodezze di Art the Clown mantiene tutta la sua peculiarità malsana e dirompente, dal montaggio al servizio dello splatter a un impianto gore che lascia senza fiato. Gli omaggi al genere si sprecano, con un Hitchcock sotto steroidi e un Kubrick in pieno delirium. Il finale, sul filo dell’isteria, impone fantasy, horror e un colpa d’ala cristologico.
Oltre Cronenberg, Yuzna, il body horror e gli intellettualismi fini a sé stessi. Qui si va per astrazione (da un lato) e per iperbole (dall'altro). La contemporaneità ultima e ultima(ta) a caccia di stelle sporcate col ketchup di un fastfood-burger o di un sangue proveniente da una fonte infinita? Ci si inchina, di fronte a tutto ciò. Venti minuti di meno e sarebbe stato un capolavoro.
In un ricovero per bambini i metodi educativi vengono messi in discussione da un’insegnante. Il tema spinoso, relativo ai portatori di handicap, tenta di dare spiegazioni mediche pur col beneficio del dubbio. L’attenzione è al lato umano e la Garland centra il ruolo; Lancaster ha la presenza fisica. Cassavetes si fa notare nelle riprese ravvicinate, anche se il montaggio e le musiche fanno assumere al film stile classico. Difficile credere che i genitori mollassero i figli sull’entrata e se ne scappassero via. Notevole l’ultima parte, che non scade nella pietà.
Battibecchi e vendette sull'asse Roma-Napoli con due padri orgogliosi a confronto. Sono ovviamente loro al centro della scena, col resto della famiglia a fare da scialbo contorno (se si esclude Ave Ninchi nel ruolo della moglie di Fabrizi). Lo scontro nasce nel capoluogo partenopeo, poco dopo la fine della partita Napoli-Roma vinta dai capitolini per 3-0. Il figlio (Amendola) di Cesare (Fabrizi) si ritrova l'auto con le gomme bucate e crede di individuare nel figlio (Ronconi) di Don Mimì (Taranto) il responsabile. Ne nasce una rissa che si conclude con i due giovani al commissariato,...Leggi tutto dove vengno raggiunti dai rispettivi padri. Già qui si capisce come il carattere fumantino di entrambi i genitori fatichi a conciliarsi, e col passare dei minuti sarà sempre peggio. Niente di male se non fosse che Gennarino, il figlio di Don Mimì, s'innamora perdutamente di Marcella (Guida), la figlia di Cesare, con inevitabile scorno dei due padri, che proseguono incessantemente le loro liti ostacolando quanto più possibile la relazione tra i due ragazzi, intenzionati a fare sul serio.
Uno schema che si ripete in modo identico per l'intero film, con continue trasferte a Roma e Napoli di un padre o dell'altro per dirimere le questioni che si proporranno di volta in volta. Inutile precisare come finirà la storia (ovvero nell'unico modo possibile, per una commedia di questo tipo), perché ciò che conta è il ripetuto faccia a faccia tra i due padri: ricco barista Don Mimì, più modesto pollivendolo al mercato Cesare, si urlano addosso senza sosta alzando i toni ad ogni incontro-scontro. Ed è solo grazie alla loro riconosciuta bravura se I PREPOTENTI in qualche modo riesce a non annoiare troppo, perché in realtà la sceneggiatura - di Amendola, Maccari e Fabrizi stesso - a livello umoristico denota limiti evidenti: scarse le battute efficaci, si punta quasi sull'improvvisazione, azzeccando due o tre scene ma arrancando terribilmente nelle restanti, in cui la sguaiataggine soprattutto di Fabrizi non sortisce gli effetti sperati, con i toni che si alzano senza che i dialoghi riescano a sostenere la bella verve dei due.
I due giovani innamorati sono come sempre più compiti e ridotti a svolgere anonimamente il loro ruolo tra sdilinquimenti, occhi dolci e financo serenate sotto casa; il film procede quindi a compartimenti stagni, come se la storia d'amore si ricavasse uno spazio a sé stante, fiacco ma necessario. A Ferruccio Amendola, nipote del regista, spetta di menare le mani e tifare per la Roma senza interagire granché con la sorella, mentre Ave Ninchi si aggiunge a chi ha il compito di far scaldare Fabrizi insieme a Mario Riva, agente di polizia che interviene in più sketch al mercato per bacchettare il povero pollivendolo Cesare stilando contravvenzioni per ogni minima infrazione.
L'idea nel suo complesso funziona: il successo arriva e con esso – l’anno successivo - il sequel, film che precederà - sempre di un anno - il più riuscito TOTO', FABRIZI E I GIOVANI D'OGGI, nel quale il grande comico napoletano sostituirà Taranto riporoponendo di fatto la medesima situazione con risultati decisamente migliori. Qui la chiusura, con una sfida canora tra i due padri che porta la sfida Roma contro Napoli sul terreno della canzone, è piuttosto indigeribile e rispecchia l'andamento incerto del film, troppo di rado divertente, il più delle volte solo caotico.
Un tema sempre attuale, quello della violenza sulle donne, che diventa la chiave di lettura per un delitto sul quale imbastire un processo da seguire fino alla fine per scoprirne gli esiti. Nel ruolo della moglie - e madre - maltrattata c'è Laetitia Casta, sul set con lo sguardo basso e senza mai alzare la voce. Fermata insieme all'amante (Liberman) del marito (De Plano) la notte dell'omicidio di quest'ultimo, si trova a dover rispondere alle accuse che le vengono rivolte e sulle prime cerca di negare. Non dura molto: presto crolla e confessa di averlo ucciso lei, il marito,...Leggi tutto colpito a morte con un coltello proprio mentre per l'ennesima volta stava aggredendola. Era la sera del compleanno della più piccola delle figlie, che aveva voluto il padre presente alla sua festa. Tutto sembrava essersi concluso senza drammi, quando l'uomo era rientrato in casa accendendo un diverbio con la moglie conclusosi nel peggiore dei modi.
Il processo è inevitabile: l'accusata grida alla legittima difesa, il PM (Dall'Anna) non ci sta e cerca di far luce su una vicenda che lentamente andrà a ricomporsi e nella quale uno spazio importante se lo ricaveranno anche i figli della donna, con il maschio - ovvero il maggiore (Carpenzano) - profondamente turbato dalla vicenda ma di certo più vicino alla madre che al padre. E così il film, che prevedibilmente scivola avanti e indietro nel tempo in un costante gioco di rimbalzi tra passato e presente, ha modo di mettere in luce una sceneggiatura accurata, attenta a scoprire le carte progressivamente e infilando nella storia i tanti personaggi preoccupandosi di delinearne bene il carattere. Oltre ai citati troviamo tra quelli più rilevanti la sorella (Maglietta) della vittima, come si può immaginare più vicina a quest'ultima che all'assassina, e la nuova compagna del marito, anch'essa - come si è visto - presente sulla scena del delitto (va capito in quale ruolo).
Gli incastri ben congegnati dal copione sono il vero punto di forza del film, scritti dal regista Leonardo D'Agostini insieme a Ludovica Rampoldi a partire dal romanzo di Antonella Lattanzi. Nel suo intelligente rimpallare tra l'aula del tribunale, i flashback e gli intermezzi che separano le udienze distanti anche mesi tra loro, il film trova una sua dimensione piuttosto felice, anche se in più di un'occasione svela smagliature un po' da fiction cui il cast non riesce a porre convincentemente rimedio. La Casta, con chiaro accento francese che a tratti ne smorza la spontaneità, non sembra offrire un gran servizio alla protagonista, mentre a sorprendere semmai sono il buon Carpenzano e la ritrovata Licia Maglietta, capace di dare corpo con autenticità a un personaggio per certi versi poco simpatico come la sorella del defunto. Anche Sgueglia come amante della protagonista ha modo di incidere a suo modo in un ruolo dimesso e ambiguo, mentre giunge un po' scontato il colpo di scena finale, tassa da pagare regolarmente a questo tipo di film.
Nulla di particolarmente memorabile, ma un lavoro che nel suo insieme avrà modo di trovare legittimamente un proprio posto all'interno di un genere in cui la routine genera opere tra loro spesso troppo simili. Fotografia laccata, stile à la page privo di spettacolarizzazioni. Matteo Rovere in produzione continua ad essere garanzia di professionalità.
La scelta della faccia giusta, in casi simili, fa già metà del film. E così Laure Calamy nel ruolo di Iris Beaulieu diventa il primo biglietto da visita del lavoro di Caroline Vignal, che dirige e scrive (con Noémie de Lapparent) questa commedia in fondo banale ma sufficientemente spigliata da poter soddisfare il suo pubblico. Iris, stanca di essere ignorata o quasi da Stéphane, marito (Elbaz) troppo concentrato sul proprio lavoro, fa quello che le consiglia chi si trova nelle sue stesse condizioni e vuole approfittare dei vantaggi della modernità. Non...Leggi tutto sarà Tinder (comunque citato) ma il concetto è lo stesso: un improvviso mare di opportunità amorose che si apre sul telefonino di chi s'iscrive; e comincia la scelta (all'insaputa di Stéphane naturalmente, che prosegue a ignorarla).
La mano che scorre le immagini di decine di maschi disponibili, l'indice di compatibilità e infine l'incontro. Uno schema consolidato, per i nostri giorni, al quale Iris - che online si fa chiamare Isis - non si sottrae: dapprima timidamente, inseguita subito da decine di messaggi che con invadenza le affollano il cellulare nei momenti meno indicati (mentre è in piena attività al suo studio dentistico, ad esempio), poi con sempre più sfacciataggine e confidenza, trovando in quel mondo - che dal virtuale la trasporta in una realtà fatta di enormi soddisfazioni impreviste - la sua dimensione ideale.
Stéphane preferisce passare la serata davanti al computer limitandosi a chiederle dove sei stata senza troppo indagare? Meglio così, non fa che agevolare le scappatelle a base di sesso e tenerezza di lei, ogni giorno più carica e raggiante. In una commedia americana probabilmente farebbe presto i conti con impacci e inconvenienti pronti a minare una scelta poco ortodossa (in fondo è sposata con un uomo che pare amarla ancora e ha due splendide figlie), in Francia no. Anzi, al culmine del piacere si lancia addirittura in una danza in strada da autentico musical sulle note della celeberrima "It's Raining Men" delle Weather Girls (1982) ricantata in francese.
Il film, senza dover dire nulla di nuovo e pure ripetendo se stesso senza grandi variazioni, intrattiene e in qualche occasione persino fa sorridere, soprattutto negli imbarazzi iniziali della protagonista, che entra goffamente in un mondo a lei totalmente estraneo. La sua espressività, associata a un fisico rotondetto non certo slanciato ma ancora ben fatto nostante gli anni tra i quaranta e i cinquanta, regalano esplosività al personaggio, lo rendono simpatico e buffo quanto basta per raccontarne le avventure tra un amante e l'altro: ognuno con le sue fissazioni, il suo modo di fare, l'approccio più o meno brusco... Non sembra ci sia bisogno di altro per confezionare una commedia al passo coi tempi e più o meno brillante. Chiaro che le ambizioni sono basse e che il significato ultimo del messaggio sta racchiuso tutto nell'ultima inquadratura, con un'apertura sincera all'esperienza extraconiugale vista come non necessariamente negativa, ma non è detto che rinunciare a ogni barlume di originalità sia difetto esecrabile. A volte per passarsela un po' davanti allo schermo un film così può anche bastare.
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA