Paralleli tra "Il segno del comando" e "Voci notturne"

24 Luglio 2007

Non è dato sapere quanto Il Segno del Comando abbia effettivamente influenzato l’immaginario dell’allora trentatreenne Pupi Avati (che al tempo aveva solo un anno in più del protagonista Ugo Pagliai), certo è che nel suo approccio al cinema fantastico non è difficile scorgere alcune suggestioni presenti nello storico sceneggiato firmato da Daniele D’Anza che tanto successo ottenne quando venne trasmesso per la prima volta nel maggio 1971 (per cinque domeniche, in prima serata). L’arrivo dell’inglese Forster/Pagliai a Roma ad esempio, l’arrivo cioè dello straniero in una terra che non conosce e che subito lo assorbe portandolo in contatto con personaggi ambigui e misteriosi, non può non ricordare l’analoga entrata in scena di Capolicchio/Stefano nella cittadina (Comacchio/Minerbio) di La Casa Dalle Finestre Che Ridono (film al quale lo sceneggiato di D’Anza potrebbe ancor più facilmente riallacciarsi se si accostano le figure di Tagliaferri e Legnani, pittori “maledetti” di certificata centralità in entrambe le vicende).

 

E’ però con Voci Notturne, misconosciuta miniserie in 5 puntate (non a caso sempre 5) prodotta per la Rai nel 1996 che la relazione tra Avati e Il Segno del Comando si fa evidente. Non tanto perché entrambe le vicende sono ambientate a Roma quanto perché i contorni magici, misteriosi, settaristici comuni danno nei due casi vita a storie complesse ed estremamente ramificate che trovano nel’esoterismo e nell’etica del complotto la loro ragion d’essere. Certo i tempi son cambiati e la staticità d’insieme che caratterizzava Il Segno Del Comando non è più proponibile, nel 1996; così Avati, che scrive soggetto e sceneggiatura di Voci Notturne (lasciando l’onere della regia a Fabrizio Laurenti), fornisce nel copione indicazioni precise affinché la vicenda proceda molto più speditamente.

Pur molto simili negli intenti, infatti, le due produzioni si diversificano nella costruzione della storia originando due differenze sostanziali. La prima innanzitutto: Il Segno Del Comando dura cinque puntate ma si ha la netta impressione che sarebbe stato facilmente sintetizzabile sfrondando i dialoghi e accorciando certe interminabili camminate di Pagliai tra stanze e vie disabitate; Voci Notturne al contrario sembra non riuscire a contenere in 5 puntate (lunghe tra l’altro un’ora e mezza invece che un’ora e dieci) tutto quello che ha da dire: sono talmente numerosi gli elementi che intervengono nel racconto che più di una volta ci si stupisce di poterli trovare tutti all’interno della stessa storia. Nel Segno Del Comando la vicenda è più lineare e semplice, molto più facilmente riassumibile e memorizzabile. Provate a immaginare una sintesi scritta di Voci Notturne dopo averlo visto: vi accorgerete che occuperebbe intere pagine.

L’altra grande differenza sta nel finale: nel Segno del Comando esso occupa uno spazio molto importante, trova nella conferenza di Pagliai un momento intensissimo e chiarificatore lasciando poi lo spazio a un lungo epilogo in cui il commissario di polizia completerà le risposte e in cui molte altre cose troveranno la loro giusta collocazione. In Voci Notturne accade l’esatto contrario: fino a 10 minuti dalla fine ancora ci si chiede chi ci fornirà una spiegazione chiara dell’accaduto. I mille dubbi lasciati in sospeso non verranno del tutto chiariti andando a comporre una delle conclusioni più deludenti e affrettate che si possano immaginare e a rovinare in buona parte quanto di buono costruito fin lì. Se fino all’ultima puntata Avati aveva saputo montare pietra su pietra una imponente cattedrale composta da mille diverse piste d’indagine che tutti si aspettano di veder culminare in una cupola perfetta, D’Anza aveva zoppicato un po’ troppo perdendosi in lungaggini sicuramente evitabili e solo in parte imputabili alla diversa datazione delle due opere. Certamente, dunque, Voci Notturne non è il remake del Segno del Comando (che invece esiste ed è stato prodotto da Canale 5 nel 1992): l’approccio è chiaramente molto più moderno, la storia più legata alla realtà del tempo...

 

Però come non riconoscere i molti elementi comuni ad entrambe le storie? Essi portano a pensare che un forte legame tra le due serie effettivamente esista; molti spunti sono i medesimi, anche se sviluppati più approfonditamente in Avati. Pensiamo alle partiture musicali enigmatiche (che nello sceneggiato di D’Anza sono il 17° componimento del misterioso Baldassarre Vitali e in Voci Notturne sono scritte utilizzando metodi in disuso da secoli dando il via a un’indagine che da sola potrebbe occupare un’intera puntata), o alle oscure vicende naziste (alla base della storia di Avati ma già presenti, molto più marginalmente, anche nel Segno Del Comando), ai pittori scomparsi (in Voci Notturne il riferimento al Tagliaferri autore del dipinto-chiave trovato da Pagliai è palese), alle case chiuse e abbandonate (ovvio il parallelo tra la pensione di Voci Notturne e l’appartamento di Via Margutta 13). Volendo si possono affiancare i “ruderi di tempio romano” al diroccato ponte sul quale Avati apre la sigla di Voci Notturne e che è centrale nella sua storia. E che dire delle voci dall’aldilà? Più tradizionali nel Segno del Comando, più spiazzanti in Avati, ma sempre fondamentali nell’economia della vicenda a testimoniare di un amore per l’orrore che D’Anza svilupperà ad esempio nei Racconti Fantastici tratti da Poe e Avati nel celebre Zeder. Comune anche la sparizione, a inizio vicenda, di una valigetta contenente testi forse preziosi.

 

Insomma, gli elementi che suggeriscono l’accostamento tra le due miniserie sono davvero molti, non finiscono qui e fan quasi pensare a una sorta di omaggio nemmeno troppo velato, anche perché in entrambe le serie il soprannaturale fa capolino quando ormai sembra di avere a che fare con un thriller (pur se non ordinario). La forte diversità che si avverte in apparenza è data invece dalla scelta dei personaggi che animano la vicenda: Voci Notturne infatti manca di un vero protagonista. Lorenzo Flaherty, Jason Robards III e Massimo Bonetti si dividono la scena ma non sembrano incidere troppo dando l’impressione che la storia conti molto più dei personaggi, Ugo Pagliai invece (all’epoca trentaquattrenne che nello sceneggiato dice di avere trentasei anni dimostrandone tuttavia più di quaranta) caratterizza fortemente, col suo sguardo spesso perso nel vuoto, Il Segno del Comando fino a diventarne il simbolo stesso. D’Anza crea il clima di mistero necessario sfruttando location romane adeguate alla bisogna, Avati lo fa puntando sui volti dei personaggi e ricamando tra le pieghe di una sceneggiatura perfetta, incredibilmente stratificata e sofisticata (almeno fino al deludente finale).  E’ davvero un peccato che di Voci Notturne non esistano né dvd né passaggi tv recenti (mentre per lo sceneggiato di D’Anza la Elleu multimedia ha da tempo provveduto a risolvere il problema reperibilità), perché il lavoro straordinario di Avati (che col fantastico ha sempre avuto uno splendido rapporto) meriterebbe assolutamente una riscoperta!

 

APPROFONDIMENTO INSERITO DAL BENEMERITO ZENDER

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