Un'autentica svolta, per Woody Allen. Non solo è un film drammatico, lontanissimo dalla leggerezza dei suoi lavori abituali; è anche il primo lavoro in cui non appare nel cast pur dirigendo e scrivendo (da solo) il copione. Un'opera in cui traspare tutto l'amore di Allen per il cinema europeo e in particolare per l'introspezione psicologica dei personaggi (da cui uno dei tanti significati del titolo) cara a Bergman; un’opera stilisticamente molto ricercata (si vedano la fotografia, la fredda rigorosità delle scenografie) e concentrata su dialoghi che non lasciano nulla al caso, con una capacità non indifferente di rendere viva e pulsante ognuna delle otto figure che la sorreggono. Pochi flashback...Leggi tutto (e perfetti), lunghi silenzi ma carichi di poesia. Se escludiamo l'ultima parte, in cui l'intensità si stempera in un'attesa troppo prolungata, INTERIORS è costruito con grande abilità. Ovviamente chi si aspetta un qualche collegamento con i lavori precedenti rischia di rimanere spiazzato: non c'è quasi nulla dell’Allen che abbiamo conosciuto fin qui, se non una vocazione autoriale che già si intuiva in alcuni film precedenti (soprattutto nell'ultimo IO & ANNIE) e che qui si concreta in uno stile raffinato e riflessivo, in cui i sentimenti diversi dei personaggi trovano ognuno modo di estrinsecarsi. Di tutte, sono le figure delle figlie Joey (Mary Beth Hurt) e Renata (Diane Keaton) ad avere più spazio, con i relativi problemi di coppia, mentre per Eva (Geraldine Page), la madre che spera sempre di tornare a vivere col marito (E.G. Marshall), sono spesi i dialoghi più intensi e struggenti. Forse il migliore e più sincero Allen drammatico.
Primo della "trilogia del terrore" (ma verrà di peggio). Eternamente afflitto da una sindrome tutta newyorchese di parvenu culturale, il buon Woody tralascia di fare quello che sa fare e tenta il film alla Bergman. Non essendo però "nordico e religioso" come diceva Gaber, gli viene un pastiche, un film "di" Bergman, ma fatto da un altro, e senza lo spessore dello svedese. Niente di brutto, intendiamoci, anzi: ma è invincibile una sensazione di imparaticcio, di impostato, di inautentico. Però in confezione deluxe.
Dopo un'eccelsa carriera come attore e regista brillante (ma mai banale) Allen dirige un film dai toni decisamente drammatici e colmo di introspezione psicologica, chiaramente ispirato ad uno dei suoi miti cinematografici, Ingmar Bergman. Il risultato è un'opera che, seppure di grande eleganza formale (come gli interni tra i quali è girato) ed interpretata da un gruppo di attori in stato di grazia (grandissime la Stapleton e la Page), è fredda e poco partecipe, quasi ingessata e alla lunga sterile.
Ricca famiglia altoborghese si sfilaccia perchè babbo si mette con un'altra, mamma ci resta male e le figlie rosicano. Ben girato, ben fotografato, ben interpretato, insomma la confezione c'è, ma il contenuto sempre mattone resta. Come altri hanno notato, il fatto di essere un film "alla maniera di" (Bergman) si traduce in una sensazione di freddezza e accademia. Alla prima visione, mi sembrò tanto lontano dall'Allen che conoscevo (ed amavo) che - smarronando in pieno - sospettai si trattasse in effetti di una raffinata parodia dei film del collega svedese.
Nel 1978 Allen, deciso a tentare qualcosa di diverso dalle sue commedie e profondamente influenzato dagli ultimi film di Bergman, girò questo intenso dramma familiare. A me personalmente è piaciuto, i dialoghi sono ottimi ed il ritmo rimane costante, senza contare l'ottimo cast messo insieme dal regista newyorchese (bravissima Maureen Stapleton) . Come in Bergman, anche qui ci sono al centro della rappresentazione donne forti, affiancate da mezze figure maschili, spesso puerili e comunque poco approfondite.
Pretenzioso? Quanto doloroso. La supponenza esistenzialista di voler confinare il ciclo vitale di una famiglia benestante con pruriti ascetici ad un castello di carte che caracolla inesorabilmente elargisce l'Allen più cinico e straziante di sempre. I frangenti dedicati allo humor (seppur"nero"od agrodolce) disertano energicamente, iconizzando l'estrema solennità nel tentativo di aggravare Stardust memories. Gli interni sono asettici ed eleganti quanto l'interloquire di chi li abita. Bergman aleggia dietro ogni velo, senza dar mai fastidio. ****1/2
La prima pellicola di Woody Allen completamente priva di comicità lascia un po' interdetti. Forse, avendo un po' viziato il pubblico, ci si aspettava qualche siparietto comico o al limite qualche battuta. Niente. Non si ride mai. Ma questo non è una cosa negativa, fa riflettere la gestione dei rapporti umani, descritti con grande realismo e introspezione. Drammatico e toccante, colpiscono le scenografie povere ma essenziali. I personaggi saranno riutilizzati in futuro in altre pellicole del regista.
Primo film pienamente drammatico di Allen, arriva affatto inatteso considerato l'inesorabile, coerente viraggio del suo cinema dallo slapstick degli esordi alla commedia "seria". Confermo l'impressione ricavatane alla prima visione: si tratta di un opera sentita, di una sincerità di fondo che gli fa perdonare alcune programmatiche forzature di confezione. Bergman e ancor più Cechov e O'Neill son dietro l'angolo, ma la personalità ed il controllo delle immagini di Woody son percepibili, come la tematica portante arte vs vita. Stapleton migliore del lotto.
Woody Allen "alla maniera di" Bergman, esperimento non del tutto riuscito e a tratti ingenuo ma sincero (e va detto che le nevrosi newyorkesi ben si sposano alle plumbee atmosfere tipiche del grande svedese). Padre, madre, tre sorelle, i mariti di due di loro: una famiglia si sfascia e le reazioni dei vari personaggi vanno dall'amara accettazione all'autodistruzione. Nel cast, oltre all'allora immancabile Keaton, due mostri sacri del teatro americano, la Page e la Stapleton, quest'ultima perfetta nel ruolo della sana, ruspante seconda moglie.
Girato nello spazio temporale fra i due capolavori indiscussi del regista (Io & Annie e Manhattan), Interiors colpisce per la qualità della scrittura del newyorchese che delinea una sceneggiatura amara e profondamente drammatica, con dialoghi di elevato realismo. La prova del cast è sentita e indimenticabile, fatto che evidenzia la capacità innata di saper dirigere - come pochi altri - un parco attori eterogeneo. Un ritratto veritiero della borghesia americana che, nonostante manchi di un pizzico di ironia, centra l'obiettivo e induce alla riflessione.
Si ispira a Bergman senza raggiungerlo, risulta del tutto privo dell'ironia di Allen ed esteticamente è un lavoro bigio, scolorito, dai toni pesanti. Risulta tuttavia un dramma dai dialoghi non banali, soporifero forse, avaro di slanci o di brillantezza ma con un suo senso rispetto all'intento di affrescare l'alta borghesia cara al regista. Non il suo lavoro che preferisco o quello che rivedrei, comunque.
Nessun temuto autorialismo gratuito: Allen prende Sussurri e grida ma lo reinterpreta rivitalizzandolo, scrollandosi di dosso in primis il temuto approccio manierista e in secundis la logorrea che penalizzava alcune sue commedie più o meno coeve. Spietato e indulgente al tempo stesso, immerso in un'atmosfera di raro livore, esplicito nel riporre gli unici cenni di vita nel personaggio più lontano dall'autore. E, curiosamente, l'Allen settantiano tocca il vertice col suo film meno alleniano, oltre che col più alleniano tra i film non suoi (Sam).
Il primo film drammatico di Allen è un piccolo gioiello in cui l'autore conferma di aver raggiunto una maturità artistica non indifferente. Anche qui scava nelle profondità dell’animo, ma in modo diverso dal solito, alternando lunghi silenzi e dialoghi privi di comicità e leggerezza. Significativi gli squarci fotografici degli interni che nascondono dietro la loro perfezione la tormentata incompletezza del genere umano. Tutti particolari che avvicinano Allen al cinema di Bergman, di cui è un noto estimatore. Impressionante l’interpretazione di Geraldine Page.
MEMORABILE: I flashback del passato; Il finale sulla spiaggia.
Marito si separerà e disgregherà la famiglia. Con gli ovvi riferimenti a Bergman per la confezione neutra ma non fredda e per lo scavo dei rapporti, Allen prende spunto ma non imita. Giocato sulle nevrosi esistenziali, tende a un pessimismo senza cadere nel tragico e ciò gli permette una certa linearità narrativa. Nota per la Page, maschi non pervenuti. Girato con cura anche nei campo lunghi esterni e nei flashback pieni di amorevole nostalgia. Conclusione che eccede nella maniera ma va bene così.
MEMORABILE: Il flashback dell'albero di Natale; La neosposa che rompe il vaso; Il tentativo di violenza sessuale.
Woody Allen cita e omaggia uno dei più grandi registi di tutti i tempi: Ingmar Bergman. Interiors è un film estremamente intimo (privo di colonna sonora e primo film del regista dove non appare come attore), in cui la macchina da presa, spesso impietosa, cattura e rende indimenticabili i volti di tutti i protagonisti; li osserva, li scruta, li spia in un tour de force fatto di crolli emotivi e di disgregazioni familiari. Cast all women dove spiccano Mary Beth Hurt (nel personaggio migliore del film) e Geraldine Page (sempre immensa). Un capolavoro.
Prima, gelida incursione di Woody Allen nel cinema drammatico. I toni bergmaniani in chiave statunitense sono particolarmente congeniali al mondo del regista, in una New York non più allegra ma fatta di interni troppo perfetti abitati da intellettuali egocentrici, sospesi tra il narcisismo e il nichilismo. La caratterizzazione dei personaggi è l'anima del film, dalla matrona svuotata da una vita di maniacale perfezione all'esuberanza simpatica di Pearl. Delle figlie l'unica a salvarsi è forse l'attricetta. Lavoro attoriale favoloso, regia che sa sfruttare quelle stanze freddissime.
MEMORABILE: La comparsa della madre con il nuovo vaso e il suo falso contegno altoborghese; Il classismo delle figlie (e di Woody?) verso Pearl.
Nella sottile regia di Woody Allen e nella fatale catarsi familiare si dipanano traumi e insofferenze esistenziali, che avvolgono i personaggi nell’ombra del retaggio borghese e nella bellezza monocolore fotografata da Gordon Willis. Bergmaniano nell’anima, allenniano nell’assunto, è un film di una potenza emotiva straordinaria. Cast di bravura maniacale con Geraldine Page e Mary Beth Hurt che svettano. Femmineo.
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Oggi (per le due ore di sciopero rigurdanti l'articolo 18) mi sono fiondato alla Mondadori di Brescia (Freccia rossa).
Tra i cult acquistati : il Bellocchio di Enrico iv, Il processo di Welles (e siamo a due con Storia Immortale), Finoall'ultimo respiro di Godard e appunto Interiors.
Ora, come si sà detesto il cinema di Woody Allen (in videoteca avevo solo Il dormiglione, unico suo film divertente che lo apparenta alla mia amata fanta'70), ma Interiors in un modo o nell'altro mi ha sempre ispirato, vuoi perchè sento odori bergmaniani (e i commenti dei davinottiani me lo confermano), vuoi per il vago sentore del cinema delle donne altmaniano (qui meno confermato però).
Spero che il mio olfatto, questa volta, non mi tragga in inganno...
Galbo ebbe a dire: formalmente impeccabile ma freddo e sterile
Infatti Galbo, ho letto il tuo commento.
Non amando Allen non saprei, ma Interiors mi ispira, oltre a Bergman (che adoro) mi sono venute in mente le Tre donne altmaniane (con manifesto filmico fac-simile e altro autore per me seminale).
Come si dice in questi casi, mi ispira non poco...Ma da non alleniano non faccio testo...
io da non alleniano te lo consiglio invece! Dichiaratamente bergmaniano - qualcuno ha parlato di "parodia autoriale" - è un film di rottura, che rivelato altre corde nel regista oltre a quelle smaccatamente autoreferenziali. Da vedere a mio avviso. Molo doloroso...
Ah, e complimenti per l'acquisto de Il processo (barocco, meraviglioso) e Fino all'ultimo respiro (un cult assoluto).
Rebis ebbe a dire: io da non alleniano te lo consiglio invece! Dichiaratamente bergmaniano - qualcuno ha parlato di "parodia autoriale" - è un film di rottura, che rivelato altre corde nel regista oltre a quelle smaccatamente autoreferenziali. Da vedere a mio avviso. Molo doloroso...
Ah, e complimenti per l'acquisto de Il processo (barocco, meraviglioso) e Fino all'ultimo respiro (un cult assoluto).
Grazie Rebis. Essì, Il processo è un altro film che mi ha sempre attirato (non amo nemmeno Welles a dire il vero, ma StoriaImmortale è ipnotico non poco), il secondo film di Godard doveva entrare per forza nella mia videoteca (adoro il remake mcbrideiano) e poi costava una bazzecola, su Allen saprò dirti, sicuramente se era una delle sue solite commedie cervellotiche manco l'avrei preso in considerazione, ma leggo che confermi i miei vaghi sentori. Buon segno caro Rebis.
Direttamente dall'archivio privato di Buiomega71, il flanetto di Tv Sorrisi e Canzoni della Prima Visione Tv (Ciclo: "Cinemania", lunedì 13 gennaio 1986) di Interiors: