La soavità della volgarità che lorda la sontuosa messa in scena kubrickiana è celestiale musica profanatoria, che fa del gioiello lanthimosiano un grottesco e perfido "relazioni pericolose" in salsa muliebre, di cui, almeno nei dialoghi, il Divin Marchese si sarebbe crogiolato.
Prima di lui solo il Greenaway dei giardini di Compton House (svecchiando la muffa sui parrucconi) era arrivato a contanta grazia scellerata.
Lanthimos si autocita (la mosca cieca iniziale che coinvolge Sarah davanti al plastico shininghiano, la masturbazione fatta controvoglia e "forzata" vengono dal
Sacrificio del cervo sacro, così come "l'intruso" che entra subdolo e in punta di piedi, mellifluo e falsamente accomodante, in realtà angelo della morte che scardina e distrugge gli equilibri e la serenità, portando il caos), e riempie la pazzia della regina Anna (che, in fase di crisi isterica, delira e impazza, urlando e disperandosi, come la Adjiani di
Possession) non solo degli intrighi di corte, ma soprattutto di letame, vomito, sperma, grassocci sgadevolmente nudi, ravananate e amplessi lesbo, piccioni fatti esplodere a fucilate, sangue che schizza sui volti, volti sfregiati e nascosti sotto una benda, volti sporchi di letame, bocche impiastricciate di vomito, bordelli sozzi e puttane tanto salvatrici quanto ricattatorie, fornicazioni nel bosco, bistecche sulla gotta, la mano di Abigail ustionata dalla soda caustica, onanismi sfacciati sulla carrozza, ictus, coniglietti pressati sotto il tacco e una chiusa finale emblematica che lascia sgomenti per la rabbia e l'umiliazione che infonde (la testa pressata, lo sguardo di disprezzo della regina, la torma di conigli).
Al di là della ricostruzione storica che mozza il fiato, della cura maniacale dedicata a costumi e scenografie, dell'apparato tecnico che sfiora la perfezione, dei grandangoli "franchiani" che Lanthimos sperimenta per dare la dimensione di un incubo, delle rivalità e delle pianificazioni uterine per aggraziarsi i favori della regina (anche a letto), quello che centra il bersaglio e la cattiveria, la malignità, la meschinità, la spietatezza e la crudeltà con cui Abigail cerca, in tutti i modi, di prendere il posto di Sarah (anche lei pervasa dalla luce fosca dei propri interessi, ma decisamente più sincera e con un codice d'onore comunque rispettabile), arrivando a autoinfliggersi lesioni (il libro sbatutto più volte sulla testa tanto da farsi uscire il sangue dal naso) e adulando falsamente la regina (quando Sarah, più schietta, non ha problemi a definirla un "tasso").
Il turpiloquio infonde ludibrio, di meno le vergate in cucina, Abigail arriva a corte non prima che un cafone villano se lo meni davanti a lei e cada nel letame (portandosi la puzza addosso), l'unguento che cura la gotta come la pozione delle streghe (di fatto Abigail un pò strega lo è), la pantomima del ballo a corte e il lungo primo piano sul volto corrucciato della regina, le esplosioni di passioni saffiche (
scopami) con Abigail spettatrice a sopresa che userà le tendenze della regina a suo favore, il tè avvelenato, la rovinosa caduta da cavallo, il ritorno di Sarah a palazzo come L'avventuriera perversa vendicatrice
Gli uomini ridotti a cicisbei smidollati e pettegoli (tra un ruffiano che assomiglia a Tom Cruise e un imbecille preso per il naso-e per le palle- da Abigail con le fattezze di Heath Ledger) o a valletti costantemente maltrattati, tutti agghindati con ridicole e faraoniche parrucche e chili di trucco che li rendono più pagliacci di quello che effettivamente sono.
Lanthimos e il suo cinema rigoroso, tagliente come una lama di rasoio, pervaso da stoccate di rara malignità, che non ha perso un grammo della sua poetica stordente e feroce (anche se
La favorita, rispetto al
cervo sacro, pare, in superficie, più "lineare" e classico) che salta fuori nelle pianificazioni dell' "angelo sterminatore" di Abigail e in quel finale con dissolvenza incrociata (nell'odio negli occhi della regia, nella rassegnazione in quelli di Abigail, in quella mano che preme sulla testa ) che difficilmente si potrà scordare.
Lanthimos è forse l'unico che si è accostato ai
Misteri del giardino di Compton House, sfrondando tutto il vecchiume, le regole scritte e la prolissità di questo genere di film (si provi a confrontarlo con il lezioso
La pazzia di Re Giorgio, per dire) sfiorando il quasi capolavoro.
Le tre straordinarie attrici , poi , fanno il resto.
E grazie a dio (visto il tipo di opera) una durata cristiana e abbordabile (1h, 59m e 27s), che non sbraca nelle temute e poco incoraggianti 2 ore e 48 minuti e tempistica strabordante in generale.
Mi piace come mi mette la lingua dentro