Per il sottoscritto uno dei migliori thriller settari usciti recentemente, zeppo di angoscia, tensione claustrofobica e una assoggettazione (della malcapitata Sarah) che crea un ansiogeno stato di impotenza fino all'immedesimazione (un pò come succedeva a Jennifer Lawrence in
Madre).
SPOILERFino alla tanto agognata liberazione a colpi di sanguinoso "revenge movie" , dove il coinvolgimento emotivo, almeno quello personale, arriva a stadi altissimi, sviscerando il "killer che è in me", con un'incitamento/vendicativo all'omicidio che non provavo dai tempi di Dogville. Con un violentissimo finale a suon di sparatorie, cacciaviti usati come pugnali e suicidi.
FINE SPOILERQuando si capisce dove Marmor va a parare (i rumori notturni che fanno precipitare la vittima designata in uno stress psicofisico privandola del sonno) , comincia la discesa all'inferno e non sembrano esserci possibilità di fuga, ma solo un'accettazione e una rassegnazione degna dei romanzi di Ira Levin (sempre
La fabbrica delle mogli in testa)
Il "qualcosa che non va" si insinua praticamente quasi subito (i messaggi minatori, "Stronza egoista" , cominciano a fioccare sotto la porta dell'appartamento) e tutta sta gentilezza e accoglienza dei cari vicini di casa puzza di marcio fin dall'inizio.
Quando poi si svelano le vere intenzioni del vicinato, inizia immediato il supplizio tra resistenze fisiche al limite della sopportazione (sulle note distorte di "Happy heart"), mani inchiodate alla parete, in una tortura psicofisica che nemmeno Guantanamo. Per poi sfociate in eutanasie forzate, marchiature a fuoco (segno di appartenenza), "matrimoni" obbligati e totale privazione assoluta della privacy. Inutile, poi, tentare di fuggire o ribellarsi, causa mutilazioni (ne sa qualcosa il povero Lester, che ci smena occhio e timpano).
A Marmor non interessano le cospirazioni, i complotti e le ambiguità inquietanti paranoiche sullo stile "è pazza lei o sono folli loro?", e quindi Polanski c'entra poco o nulla, ma piuttosto si bazzica dalle parti di certa fantascienza dispotica, di
The invitation (a proposito, occhio agli assordanti allarmi rossi nel quartiere residenziale losangelino) alla Mary Harron della
Comunità (tra gli episodi migliori della serie
Fear Itself), e alle derive fanatiche/integraliste/comunitarie/parareligiose e follemente utopistiche di
The sacrament (il leader, o meglio, l'amministratore condominiale, è in serio e preoccupante odor alla reverendo Jones), che sposta l'asse dalla giungla sudamericana a un anonimo (e all'apparenza tranquillo, troppo) complesso residenziale nel centro di Los Angeles.
Appartamenti monitorati con telecamere e microfoni 24 ore su 24, lavaggio del cervello continuo, stigmate e una costante, quanto montante, claustrofobia angosciosa che si fa quasi fisica.
E come insegna Matheson la paura, quella vera, ha il cordiale sorriso del vicino della porta accanto.
Da segnare il nome di Marmor sul taccuino, visto le lusinghiere premesse di questa sua opera prima, si attende un'opera seconda che ne confermi il talento.
L'acronimo del titolo significherebbe
Una stanza da letto.
E' la mia fottuta vita!