Nella pagina che si apre cliccando qui sono catalogati migliaia di volti di attori legati direttamente o marginalmente al cinema italiano, ognuno con nome e filmografia (davinottica e non). La pagina (e conseguentemente le schede dei film) sono costantemente aggiornate con nuove introduzioni.
Di positivo c'è che si maschera sapientemente la mancanza di mezzi: un giorno di riprese a Berlino Ovest e un po' di materiale di repertorio a Hong Kong servono per internazionalizzare il film. Di negativo c'è che la storia si intorciglia fino al finale, veramente surreale. Piccolo film di spionaggio in cui i cattivi sono sovietici ma gli americani non è che siano tanto buoni. si fa vedere, ma niente di più.
Ben girato, recitato e con una riuscita ricostruzione della Rio del 1971, un film che, analogamente a numerose altre storie vere trasposte su pellicola, sconta una certa limitatezza a livello narrativo, come se la tragicità del fulcro del suo soggetto potesse permettere all'intera sceneggiatura di vivere di rendita. E così, se la fase preparatoria tutto sommato funziona e la cupissima parte centrale incide a dovere, il successivo terzo atto in anticlimax non riesce a convincere e quei due o tre siparietti strappalacrime verso il finale non fanno che rafforzare tale impressione.
Dopo aver esaltato ma con risultati non fantastici il ritorno sugli schermi di Harrison Ford, Bouzereau si dedica alle musiche di uno dei maggiori compositori di colonne sonore. La parte più interessante è quando racconta come Williams si eserciti quotidianamente e le vie per trovare la composizione giusta, ma il troppo agiografismo danneggia il risultato finale e fa sembrare il tutto un santino.
Il male minore è la sua narcolessia narrativa con spocchiose stoccate autoriali da film Sundance "impegnato" (i giovani problematici alla Gus Van Sant, il grigiore della provincia americana, le canzoni melodiche in sottofondo) che si barrica dietro a presunte possessioni e le solite, banali, avvisaglie dall'aldilà. Dopo un buon intro (il fulminante investimento) e qualcosa che lo apparenta a Martyrs Lane (la croce sul ciglio della strada) il resto diventa una lagnosa storiella di figlie morte che (ri)tornano e madri che piangono e il tutto pare confezionato dalla chiesa evangelica.
La sindrome di Shrek ha portato la Disney ad abbandonare l'animazione per la CGI e insistere sui live action per offrire qualcosa in più dei rivali della Dreamworks. Potendo pescare in un enorme repertorio di classici da modernizzare, spesso però senza fornire coerenza alle loro "nuove" sceneggiature. Qui, a esempio, la timida principessa della favola diventa una specie di Robin Hood al femminile, con l'ex principe azzurro sua spalla in una rivoluzione culturale nel regno. Zegler se la cava senza acuti, Burnap è spaesato. Gadot decorativa. I migliori attori sono i nani finti.
"69, année érotique", o "la grande truffa della rivoluzione sessuale"? Può sembrare (e forse lo è) reazionario e bigotto, cerchiobottista e ipocrita, ma il lavoro di Martino (che in alcune sequenze profetizza un suo futuro buon giallo) anticipa i futuri strali di Pasolini (cinematografici e cartacei) sulla falsità della "rivoluzione sessuale" e sulle ipocrisie/contraddizioni della gioventù "capellona". Il resto è tragicamente profetico: 55 anni dopo è tutto peggiorato - e in modo terribile, tra de-umanizzazione, solitudine e angosce profonde. (Pur)troppo lungimirante, ahinoi!
Tecnicamente Marchal non si discute, lo sappiamo tutti. Nuovo maestro del polar eccetera eccetera. Poi però ti trovi sparato dentro una storia che più caotica è difficile immaginarla, con decine di personaggi che saltan fuori dal niente, che a raccontarla due giorni dopo aver visto il film rischi di non ricordare nulla... per poi accorgerti che in fondo è la solita lotta tra bande, coi soliti poliziotti corrotti, col solito non esistono buoni e cattivi, che sempre tutto è sfumato e confuso. Insomma, esattamente quello che ti aspetti da un noir francese moderno,...Leggi tutto sporco, realizzato ovviamente con stile superiore in grado di ottenere l'impatto giusto e colpire chi è già pronto a gridare all'ennesimo capolavoro (o quasi) del regista.
Il film si apre nel buio: qualcuno urla e un un tizio, tornata la luce, esce dalla villa dove stava, prende il fucile e si spara. Già qui il tutto è molto più che un déjà vu. Se ci aggiungiamo che subito dopo compare sotto un bel "tre settimane prima" e che si parte a gambero, si può capire quanto ci si adagi volentieri sui cliché più triti, dai quali Marchand si guarda bene dall'affrancarsi anche nel prosieguo, quando si parte in quarta con una strage ferocissima in un bar tra la banda dei Bastiani (al cui vertice sta una inevitabilmente invecchiata Claudia Cardinale) e quella di Frank Nadal (Renaud). Una carneficina messa in scena con la musica che copre completamente i suoni (tranne quelli degli spari, comunque attutiti) ottenendo un effetto indubbiamente efficace e a suo modo piuttosto insolito.
In un'altra zona, nello stesso momento, prende posto il nuovo direttore della polizia in Marsiglia, Leonetti (Reno), che avrà il difficile compito di mettere ordine in una guerra tra gang che promette sangue e cadaveri a non finire. E sarà così, dal momento che come detto anche gli agenti dell'anticrimine non sono certo degli stinchi di santo. Tra questi Richard Vronski (Gautry) si mette in luce come il vero protagonista, affiancato dall'alcolizzato Willy (Merhar) ovvero l'uomo che avevamo visto suicidarsi nell'incipit. La squadra si getta a capofitto nell'intreccio, controllata da una bionda non più giovanissima (Catherine Marchal, moglie del regista) che avverte il loro commissario di come ci siano sospetti pesanti su qualcuno del gruppo, perché informazioni segrete vengono, non si sa come, passate ai trafficanti di droga del posto.
Ma non ci si ferma a questo perché, proseguendo, l'intreccio si infittisce ulteriormente costringendo chi guarda a non perdere nemmeno un secondo del film, pena il rischio di precipitare nel marasma. La cosa naturalmente va a discapito del godimento di un'opera che, se già rischia di coinvolgere a fatica per questo motivo, pare offrire veramente poco anche dal punto di vista della freschezza, con scene cui si ha sempre l'impressione di aver assistito mille volte. Marchal poi dà fluidità ai movimenti, dirige da par suo salvandosi da ogni possibile stroncatura feroce, ma il film non appassiona, scivola indolore ravvivato qua e là da singoli buoni momenti, recitato bene ma terribilmente vuoto. Con un'impennata spettacolare nel finale, sulle note di "Immortels" di Alan Bashung. Marsiglia occhieggia qua e là senza lasciare, neppure lei, troppo il segno.
Stringato, secchissimo poliziesco tratto da una serie di grande successo in America che cominciò alla radio e proseguì in tv. Jack Webb, che ne fu creatore guadagnando ottima fama, ne dirige questa prima trasposizione cinematografica (la seconda, LA RETATA, uscirà molti anni dopo e sarà una parodia, con Aykroyd e Hanks) ritagliando ovviamente per sé – come nella serie – il ruolo del protagonista, Joe Friday, sergente di polizia qui alle prese...Leggi tutto con l'omicidio di un allibratore, Miller Starkey.
Eliminato spietatamente nella prima scena con quattro colpi di fucile (notevole il momento in cui la vittima si volta d'improvviso in primo piano verso la cinepresa con il volto insanguinato), Starkey esce di scena crollando a terra in un campo ai margini d'una strada, lasciando la polizia a indagare sulla sua morte. Dopo una lunga presentazione di molti agenti che ronzano al distretto, capiamo che spetteranno ai detective Joe Friday e Frank Smith (Alexander), i ruoli principali.
Fin da subito si intuisce che non sarà facile individuare i colpevoli, mentre a una voce fuori campo è assegnato il compito di sintetizzare ciò che nel corso delle indagini non viene mostrato. A Friday e Smith non ci vuole molto per individuare chi lavorava con Starkey mettendo subito gli occhi su Max Troy (Harris), strafottente, ambiguo personaggio che denuncia redditi minimi e compra macchine di lusso; anche trascinatolo al distretto, tuttavia, non ne cavano un ragno dal buco. Per chi guarda non sono certo un mistero le responsabilità di Max: lo abbiamo visto benissimo accompagnare Starkey nell'incipit fino a trattenerlo per farlo centrare dalle fucilate, ma incastrarlo non sarà una missione da poco. Registrazioni telefoniche, un possibile testimone oculare... Le vie esistono, percorrerle è complicato.
A colpire è lo stile glaciale di Webb: pur non disdegnando qualche rara inquadratura azzardata, il film esibisce la quintessenzialità tipica di quegli anni, alla quale aggiunge però uno stile singolare: poliziotti volutamente inespressivi, primi piani e, in primis, una quantità indescrivibile di frasi che escono a getto continuo dalle bocche dei protagonisti: parlano tutti a velocità inusuale (narratore compreso) costringendo chi guarda a concedere al film un'attenzione decisamente superiore alla media. Poi d'improvviso qualche pausa, come quando i due poliziotti raggiungono in casa la moglie (Gregg) della vittima, che con in mano un bicchiere e visibilmente ubriaca si lancia in un monologo spiazzante in cui glorifica oltremodo il marito, alzandosi poi dal divano e mostrando di avere una sola gamba: una piccola sorpresa che dice di come Webb tenti anche di stupire, prima di riprendere a macinare dialoghi a mille all'ora.
Buono l'incontro col testimone oculare nelle sale dove sono allestite scene di caccia, conferma di una raffinatezza che si spinge talvolta alla ricerca di ambienti non necessariamente scontati come nei polizieschi del tempo. Il taglio è insomma molto moderno, il montaggio veloce, gli scambi fulminei, con alcune belle sfumature nei personaggi (Max, o ancora il testimone oculare). Nulla di particolarmente significativo nella trama invece, che segue le regole del genere limitandosi semmai a lavorare nella resa dei problemi legati agli impedimenti legislativi (l'utilizzo non corretto delle telefonate registrate, ad esempio). Finale spiazzante, che chiude un buon film non rivoluzionario ma ben scritto e godibile.
Andrea Muzzi, toscano con all'attivo un buon numero di partecipazioni a note commedie della zona (da Benvenuti a Pieraccioni e Ceccherini), si cimenta per la terza volta in regia con un film nel quale gioca anche col metacinema, fingendo di proporre a più case produttrici una sua sceneggiatura dal titolo "Piove sul bagnato" (che è in realtà quello del suo esordio dietro la macchina da presa di dodici anni prima). L'idea è intrigante: dare spazio ai falliti, ai perdenti di ogni latitudine....Leggi tutto Basta con la celebrazione dei vincenti, della competitività esasperata che porta alla depressione chi non prevale; che si raccontino invece le storie di chi non ce l'ha fatta, dei valorosi perdenti capaci con le loro storie di dare indirettamente forza a chi sta nell'ombra.
Andrea Gregoretti (Muzzi), autore di copioni che nessuno vuol leggere o che nella migliore delle ipotesi nessuno ha intenzione di produrre, decide che è arrivato il momento di concretizzare, all'interno di un film in tema, la propria vocazione al fallimento, e ha forse l'idea giusta: scovare, nella storia dello sport ma non solo, gli exploit di chi in pratica s'è fatto ridere dietro dal mondo arrivando alla soglia del successo per incespicare poi rumorosamente. E così, servendosi in un secondo tempo anche dell'aiuto di un idraulico (Crestacci), di un ragazzo delle pizze e di un amico, comincia a raccogliere materiale video che mostra a loro e alla sua donna delle pulizie (Bardini), rassegnata a sorbirsi cose che apparentemente non le interessano in alcun modo.
Corridori sovrappeso che restano indietro di decine di metri in piena gara, nuotatori che non sanno nemmeno completare due vasche, piloti di Formula 1 che in tutta la carriera non ultimano nemmeno un sorpasso... Per quanto - come spiegato sui titoli di coda e come ampiamente immaginabile - non si tratti di personaggi realmente esistiti, le ricostruzioni a volte sono buffe e in alcuni casi anche discretamente realizzate, andando a comporre un corpus di brevi filmati che hanno il compito di spezzare l'andamento di un film per il resto piuttosto impietoso nel mettere in luce la scarsa dimestichezza in regia del pur simpatico Muzzi. Si procede a fatica con una confezione ai confini dell'amatoriale che riesce difficile considerare un vero e proprio film. Sono piuttosto scenette malamente incollate l'una all'altra, in cui seguiamo dapprima Gregoretti a colloquio con produttori e amici nella speranza di piazzare la sua nuova sceneggiatura ("Piove sul bagnato", come detto), poi sempre lui - che non esce quasi mai dall'inquadratura - alle prese col proprio progetto sui perdenti, nel quale coinvolge amici e conoscenti cercando di spiegare loro i punti di forza del progetto.
Tre guest star per altrettanti veloci camei nella parte di loro stessi: Pupo come presentatore di un fantomatico premio al miglior fallito dell'anno (ha qualche posa in più), Paolo Calabresi e Angela Finocchiaro come star contattate inutilmente per partecipare al suo film (entrambi brillanti, mostrano subito lo stacco rispetto a un cast molto meno "professionista"). Per spezzare poi le scenette in casa (sorta di magazzino in un capannone), che scadono sempre più fino a raggiungere il punto più basso quando la statua di Dante Alighieri si anima, arriva in soccorso qualche reale intervista a personaggi sportivi che raccontano la loro esperienza da "falliti", ovviamente molto relativa (il portiere Giovanni Galli, la pallavolista Maurizia Cacciatori, il ginnasta Juri Chechi...). Si salva la spontaneità del Muzzi attore, che sembra calzare bene nelle vesti del protagonista e che nel copione che si è scritto trova più di uno spunto spassoso.
Da sempre una grande passione del Davinotti, il tenente Colombo ha storicamente avuto sul sito uno spazio fondamentale. Ogni puntata uscita ha un suo singolo commento da parte di Marcel MJ Davinotti jr. e di molti altri fan, ma per Colombo è stata creata fin dagli albori del Davinotti una homepage personale che raccoglie non solo i commenti ma anche informazioni e curiosità su uno dei più grandi personaggi televisivi mai apparsi. ENTRA
L'ISPETTORE DERRICK
L'unico altro telefilm che col tempo ha raggiunto un'importanza paragonabile a Colombo (con le dovute differenze) sul Davinotti è “L'ispettore Derrick”. Anche qui ogni singolo episodio della serie (e sono 281!) è stato commentato, da Zender prima e da molti altri fan poi, ma con un approccio più sdrammatizzante, in ricercato contrasto con la compostezza del telefilm. Il link porta a una pagina collegata anche agli approfondimenti in tema. ENTRA