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Commenti L'IMPRESSIONE DI MMJImpressione Davinotti

Sui brevi versi della poesia di Quasimodo citata dal titolo, declamati da Franco Nero nel suo studio, il film si chiude, mostrando poi solo una serie di filmati d'epoca che riguardano l'infanzia di un ragazzo ucciso dalla camorra per un futile scambio di persona. Perché questa è (anche) la storia di quel ragazzo, realmente accaduta, una delle tante che ci ricordano come la camorra non necessariamente risparmi chi in fondo nulla c'entra con i suoi traffici. Basta un errore, appunto, qui compiuto con una sufficienza e una noncuranza che agghiaccia e che simboleggia alla perfezione l'inumanità del crimine organizzato.

Due clan in guerra si fronteggiano per il...Leggi tutto controllo delle piazze dello spaccio (la zona "delle palazzine", nel film); dall'altra la vita normale di chi vorrebbe provare a non confondersi nel nero pece della camorra facendo quello che tutti i giovani fanno: le ragazze, il torneo di calcetto, una serata con gli amici... Roberto (Caretta) è figlio di un magistrato (Nero) che sulla malavita locale sta indagando, Dario (Di Gennaro) del proprietario di un'autoscuola (Cantalupo). Si frequentano, passano le giornate insieme tra gli esami universitari, qualche minima frizione coi genitori, due ragazze conosciute da poco... Ma intanto i giovani muoiono, i boss sparano e tra gli emergenti si mette in luce Carlo "O muccuso" (De Rosa), “il moccioso", che sta con "O' Talebano" e nonostante non mostri particolare personalità o coraggio non si fa scrupoli a usare la pistola.

Storie di ordinaria delinquenza che il film non riesce a organizzare al meglio: un'impostazione troppo frammentaria, una scarsa capacità nel focalizzare i drammi, una messa in scena modesta che evidenzia i limiti tecnici dell'operazione, a cominciare da una fotografia che non dà profondità all'azione, a musiche anonime e a una recitazione complessivamente non proprio impeccabile. A convincere di più peraltro sono i giovani: Caretta e Di Gennaro, pur senza brillare eccessivamente, restituiscono discretamente la normalità dei caratteri interpretati, smorzano gli entusiasmi senza abbandonare comunque la voglia di vivere. E se Cantalupo e l'autoscuola restano più sullo sfondo, un po' più di spazio se lo guadagna ovviamente il magistrato cui dà il volto Franco Nero. Primo nome in cartellone, Nero è solo uno dei protagonisti di un'opera sostanzialmente corale. Non fa che mostrarsi preoccupato, tormentato dall'inizio alla fine dall'idea di poter perdere il figlio, e non incide, alle prese con un personaggio di rara inconsistenza e della cui sfera personale ben poco si sa. Parla con fare sostenuto, sembra voler volare alto coi pensieri ma si rivela cinematograficamente inconcludente: non molto fisicamente addentro alla vicenda principale, vi rientra solo per salutare il figlio e dare l'impressione di dirigere qualche retata...

Al regista Claudio Insegno (fratello del più noto Pino) pare che il film scivoli via inafferrabile, tra cronaca di delitti raccontati in diretta televisiva da Sandro Ruotolo (celebre giornalista Rai) e dialoghi tra camorristi rigorosamente in napoletano stretto; i sottotitoli, molto presenti, non si attivano tuttavia solo per loro perché la lingua utilizzata, salvo rari casi, è il dialetto stretto, forse l'unico autentico ponte che ci porta a immergerci in una realtà che per altri versi si fatica a percepire, tra esterni anonimi e la sensazione di un film indipendente che, per raccontare un mondo tanto duro, avrebbe avuto bisogno di un respiro più cinematografico e trasporto ben maggiore. Dispiace perché, ovviamente, non si può che provare infinita compassione per chi ha dovuto sopportare l'atroce dramma sul quale il film si chiude. Inutile, una volta di più, l'incipit che ci mostra una breve scena dopo la quale scatta l'immancabile "una settimana prima".

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TITOLO INSERITO IL GIORNO 3/02/23 DAL DAVINOTTI
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