Parker Finn alza il tiro dell'ambizione e ci mette dentro un pout pourri di generi nell'eccesiva durata di 127 minuti, dove prende di mezzo il musical, il biopic di
stelle mai nate, il poliziesco duramente
carnahano-l'incipit mozzafiato e inaspettato, che si collega direttamente al finale del primo, dove Finn dimostra il suo talento che finisce tragicamente sulla strada-, il glamour
refniano, derive fanta
lynchiane nella rappresentazione delle scenografie degli spettacoli musicali di Skye Riley/Lady Gaga, la commedia grottesca, il dramma delle dipendenze e del successo di pizzi e lustrini, mettendo, forse un pò troppa carne al fuoco (diventa quasi più interessante la discesa dell'alienazione della giovane cantante-il rapporto con l'amica perduta, quello soffocante tossico con la madre, il tic nervoso di strapparsi i capelli-che nemmeno l'intelaiatura horror).
Intelaiatura horror che, però, vive di momenti davvero straordinari e conferma come Finn abbia una personalità autoriale degna di nota (l'incidente notturno con alla guida il figlio di Jack Nicholson, Skye Riley imprigionata e sanguinante nell'abitacolo della macchina, gli sghignazzanti a passo di
saranno famosi nell'appartamento, ghermita come
Joe Pilato e braccio ficcato in bocca, gambe spezzate
guadagninesche/
aronofskyane, il delirante sproloquio sul palco dove si inceppa il gobbo elettronico, l'incontro con i fan-il mezzo pazzo con la dermatite, la bimba con apparecchio che sogghigna- il già citato inizio con lo splatteroso investimento sulla strada, fuggendo a piedi nudi prendendo in pieno i cocci taglienti di una bottiglia rotta, la vera natura dell'amica).
Rincara la dose gore che sconfina nel body horror più surreale (suicida a colpi di peso con faccia spatasciata che cade a pezzi che manco il mini-segmento di
Adrenaline, la madre che si massacra a colpi di schegge di vetro con eye violence incluso e non ultimo le mutande sgommate del tipo con la dermatite, che gore non è ma schifosa sì, mandibole sradicate con tenaglie) ma la fa fuori dal vaso nel baracconesco e inutilmente ridondante finale, con soluzioni alla
Linea mortale, per sbracare in mostroni da b-movie, aperture visceral/
cronenberghiane/
gordoniane e chiuse romeriano/apocalittiche (o una diversa rappresentazione del contagio mediatico di
Halloween 3).
E così viene un po' a mancare la genuinità inquietante e raggelante del
capostipite.
Sta di fatto che, se l'Academy non prende in considerazione il cinema prettamente di genere, come in questo caso, Naomi Scott avrebbe dovuto avere, a mani basse, almeno una candidatura all'ambita statuetta, percè la sua performance mette i brividi e riesce addirittura a proiettare il suo lancinante mal di schiena sullo spettatore.
Ora più che mai convinto che Parker Finn sia l'autore giusto per rivedere il
Possession zulawskiano, anche se il primo
Smile frenava le ambizioni per una narrazione più compatta e fulminante e a suo modo sorprendente.
Eppoi non c'è "Lollipop" sui titoli di coda.