Antieroi e perdenti nel cinema di Robert Aldrich

28 Giugno 2018

Citando Non è più tempo di eroi, uno dei suoi migliori film bellici, è doveroso precisare che, per il regista cinematografico statunitense Robert Aldrich, non è mai stato tempo d’eroi. Nato nel Rhode Island il 9 agosto 1918 e morto a Los Angeles il 5 dicembre 1983, Aldrich è stato uno dei massimi cantori dei perdenti e degli emarginati in ambito cinematografico. Attraverso il suo universo di antieroi è riuscito a far emergere gli aspetti più inquietanti e opprimenti dei rapporti umani e a introdurre nel linguaggio cinematografico temi forti come l’individualismo e la ribellione contro il sistema, riscrivendo di fatto l’approccio ai generi classici della tradizione statunitense. Anche sul piano tecnico è stato un importante innovatore grazie a una rappresentazione dell’azione più violenta, realistica e stilizzata, molto influente sui registi delle generazioni successive come Sam Peckinpah, Walter Hill e Quentin Tarantino. Dopo un lungo tirocinio presso la RKO come sceneggiatore e aiuto regista, esordì nel 1953 con Il grande alleato, un dramma ambientato nel mondo del rugby, seguito nel 1954 dal film di spionaggio Singapore: Intrigo internazionale, due titoli non particolarmente interessanti ma contenenti in bozzolo alcuni dei suoi tratti caratteristici, ravvisabili soprattutto in alcune caratterizzazioni di personaggi disillusi e malinconici. Ma è negli anni a seguire che il corpulento Bob inizia a comporre il corpus filmico per cui verrà ricordato, affrontando i generi canonici del western, del poliziesco e del cinema bellico, riassumibile attraverso i suoi protagonisti principali antieroi testardi, cocciuti, ribelli e soprattutto destinati a un'ineluttabile sconfitta.

MASSAI

(L’ultimo apache, 1954)
Aldrich ha girato sei pellicole di genere western. Massai, il protagonista della prima, è un ultra-combattente che si oppone testardamente all’eliminazione della nazione apache. Ma la ribellione all'imposizione di un sistema sociale estraneo porterebbe sicuramente alla morte se non fosse per il lieto fine imposto dalla produzione. All’epoca dell’uscita del film era uso comune affidare parti da nativo americano a star hollywoodiane dalla fisionomia inappropriata. In questo caso Burt Lancaster se la cava piuttosto bene e in ogni caso nel 1954 non era affatto scontato affidare la figura centrale di un film a un indiano affetto da ribellismo a tratti autolesionista. Siamo di fronte al primo grande perdente aldrichiano!

BEN TRANE
e JOE ERIN
(Vera Cruz, 1954)
Al secondo western Aldrich cambia registro concedendosi un’avventura picaresca sullo sfondo della rivoluzione messicana, dove l’azione è contornata da qualche intermezzo ironico dovuto soprattutto alla presenza di un Burt Lancaster furfante dal sorriso splendente e dalla risata contagiosa, a cui fa da contraltare un Gary Cooper più misurato e malinconico. Sono figure antitetiche che stringono un’amicizia destinata a naufragare quando di fronte a dei veri ideali emerge la loro differente visione del mondo. Se non proprio perdenti, sono comunque antieroi che vivono in mondo crudele in cui la sconfitta li aspetta dietro l’angolo. L’ex colonnello sudista Ben Trane ha perso i suoi possedimenti, la posizione e non ha più un posto dove stare; e anche quando farà la cosa giusta schierandosi con i rivoluzionari messicani, sarà una scelta amara che lo porrà di fronte al regolamento di conti definitivo contro l’amico-antagonista Joe Erin, fuorilegge individualista privo di legami umani inadatto a vivere in un mondo diverso e migliore dell’universo criminale che si è creato. Anticipando di un decennio le atmosfere degli spaghetti western nostrani, Aldrich risulta un po’ meno disperato e furente del solito, ma pur sempre amaro.

MIKE HAMMER

(Un bacio e una pistola, 1955)
Affrontando il genere pulp-noir attraverso il personaggio del detective privato Mike Hammer creato dallo scrittore Micky Spillane, Aldrich firma il suo primo capolavoro mettendo in scena un noir di angosciante pessimismo e visionaria violenza (almeno per l’epoca in cui fu girato). Fino ad allora non si era mai visto nulla di simile: una donna torturata a morte, un meccanico schiacciato sotto l’auto che sta riparando... Hammer è spavaldo, deciso, un po’ misogino e di certo non viene presentato come un perdente, ma le sue sicurezze sono destinate a scontrarsi con un sistema corrotto dove il più debole è destinato a soccombere e di cui alla fine può solo essere testimone passivo.

CHARLES CASTLE

(Il grande coltello, 1955)
Aldrich incontra il volto spigoloso di Jack Palance e in occasione di questa loro prima collaborazione mette in scena un feroce ritratto dello star-system hollywoodiano. Il divo Charles Castle è un personaggio debole e tormentato che preferisce il lusso all'affetto dell’ex moglie e del suo figlioletto. Vessato dal mefistofelico magnate del cinema interpretato da Rod Steiger troverà la forza per ribellarsi, ma la scelta gli costerà cara e questa volta senza lieto fine posticcio a mitigare l’impatto di un gesto estremo. Con questo personaggio il regista sembra rimarcare che la sconfitta è inevitabile, per quegli individui che in situazioni estreme scelgono di fare la cosa giusta spingendosi contro il sistema.

JOE COSTA
e ERSKINE COONEY
(Prima linea, 1956)
Sono cinque le pellicole di Aldrich assimilabili al genere bellico. Questa, la prima, è la più secca ed essenziale. Per la prima volta la guerra viene vista come metafora del sistema sociale e politico, mostrandoci che chi detiene il potere non solo può disporre delle vite altrui, ma può anche farlo restando impunito. Il tenente Joe Costa è duro, esperto e leale, mentre il suo superiore capitano Cooney è in guerra solo per compiacere il padre politicante in carriera che vuole raccogliere ancor più consensi sfoggiando un figlio eroe di guerra. Ma Cooney, oltreché inetto, è anche codardo e quando con la sua incompetenza manderà al massacro i suoi uomini Costa reagirà brutalmente. Sono due tipiche figure di perdenti non integrabili in un sistema basato sul compromesso. Costa lo è perché - come la “volpe fragile” del titolo originale del film - risulta tanto astuto e abile sul campo di battaglia quanto fragile quando deve confrontarsi con il sistema politico-militare fatto di vigliaccheria e cinismo. Cooney lo diventa nel momento in cui la sua indole inaffidabile, rancorosa e vendicativa, lo porta a minacciare la sicurezza del sistema summenzionato, rappresentato nel film dal suo amico nonché superiore colonnello Bartlett (Lee Marvin). Trattandosi di un’opera fortemente in anticipo sui tempi, anche in questo caso la produzione ha imposto un finale più morbido dove la verità sugli eventi raccontati sembra venire a galla.

KARL WIRTZ

(Dieci secondi col diavolo, 1959)
Terza collaborazione con Palance, anche se qui il perdente di spicco è il personaggio interpretato da un Jeff Chadler insolitamente cinico e competitivo nella parte di Karl Wirtz, un reduce della Wehrmacht al servizio dell'esercito inglese come disinnescatore di bombe. Per lui far detonare le mine inesplose nella Berlino post-bellica è un gioco suicida nel quale conta soprattutto il confronto personale con l’antagonista interpretato proprio da Palance. Film minore, anche se in anticipo di quarant'anni su The hurt locker. I temi caratteristici di Aldrich sono ridotti a una semplice sfida tra buono e cattivo, ma il film offre comunque un personaggio testardo destinato alla sconfitta per eccesso d’ambizione e spavalderia.

JANE
e BLANCHE HUDSON
(Che fine ha fatto Baby Jane?, 1962)
Aldrich torna a parlarci di Hollywood dopo il precedente de Il grande coltello e firma un classico che ha contribuito alla nascita del thriller moderno. La mecca del cinema è l’emblema di come il successo e la sconfitta siano il rovescio della stessa medaglia. Le sorelle Hudson hanno conosciuto fama e gloria, assaporando però anche l’amaro sapore della sconfitta. Jane è stata una bambina prodigio viziata ed egoista, che crescendo ha progressivamente conosciuto l’emarginazione dal mondo del cinema, soppiantata dalla sorella Blanche. Quest’ultima, che da bambina viveva all’ombra della sorella subendo umiliazioni anche da parte dei genitori, è poi diventata in età adulta una famosa e stimata attrice di cinema, ma la sua carriera all’apice del successo è stata stroncata da una paralisi conseguente a un incidente automobilistico dalle dinamiche non chiarissime. Due personaggi sicuramente diversi dai soliti emarginati aldrichiani ma ad essi accumunabili nella perdita del loro status di star del mondo dello spettacolo. A questo aggiungiamo il sadico gioco al massacro che si instaura tra le due sorelle per comprendere la crudeltà dell’animo umano da sempre messa in mostra dal regista. In particolare la Davis alcolizzata e ciabattante è l’emblema del decadimento fisico e morale.

CARLOTTA HOLLIS

(Piano... piano, dolce Carlotta, 1964)
Non è chiaro se questo film dovesse essere il seguito di Baby Jane?. In ogni caso non si tratta di una sterile replica del film precedente, bensì di un thriller gotico altrettanto riuscito ed entusiasmante che presenta diversi punti di contatto con il titolo gemello. La Davis/Carlotta è qui una ricca ereditiera considerata pazza per un fatto di sangue attribuitogli in gioventù che vive nella fatiscente villa di famiglia in corso d’esproprio. La giovane Carlotta aveva tutto: ricchezza, bellezza, amore... ma qualcosa è andato storto! Attorno alla protagonista si respira l’aria decadente della fine di un’epoca con echi da gotico sudista. Un’indagine di un agente assicurativo farà emergere una verità nascosta. In ogni caso anche Carlotta, quale esponente di una classe sociale agiata, si distingue dai suoi predecessori trovando nel finale anche un meritato riscatto personale che renderà meno doloroso l’abbandono dell’antica dimora di famiglia, tanto da mettersi in posa di fronte al gruppo di fotografi e curiosi accorsi sul posto.

FRANK TOWNS
e LEW MORAN
(Il volo della Fenice, 1965)
Film d’avventure teso e avvincente malgrado l’eccessiva lunghezza, tanto da generare un remake piatto e del tutto estraneo alla ruvidezza del grande Bob. Inaugurando il filone delle “sporche dozzine” (uomo più uomo meno) Aldrich ha occasione di tornare alla messa in scena di un gruppo di emarginati guidati da James Stewart e Richard Attenborough. Stewart/Towns, a seguito di alcuni fallimenti personali, si è ridotto a fare il pilota di linea per compagnie scalcagnate nell’Africa Settentrionale. Il suo assistente Attenborough/Moran non è mai riuscito a diventare pilota ed affoga le delusioni nell’alcool. Sono due perdenti tipici del cinema di Aldrich, credono ancora nei vecchi valori come l’amicizia e non hanno nulla da perdere se non il rispetto reciproco. Di fronte ai caratteri eterogenei dell’equipaggio in difficoltà e all’impossibile impresa di salvataggio proposta da uno di essi, troveranno un motivo di riscatto morale.

LA SPORCA DOZZINA

(Quella sporca dozzina, 1967)
Le dodici facce patibolari del film sono altrettanti prototipi del perdente aldrichiano, scarti della società recuperati dal cesto dei rifiuti per compiere una missione omicida-suicida. La guerra come un gioco, uno sporco gioco, dove per fare i lavori più brutti ci si serve dei reietti. Ma il vero perdente del film è il maggiore Reisman interpretato da un grande Lee Marvin, il quale pur insofferente alle rigide e a volte assurde regole militari, non si sottrae dai propri doveri manifestando apertamente la sua avversione verso gli alti papaveri dell’esercito che manipolano le vite altrui come marionette.  

JUNE BUCKRIDGE

(L'assassinio di Sister George, 1968)
Ancora uno sguardo amaro sul mondo dello spettacolo, ma questa volta ad essere presa di mira è la televisione inglese anziché il sistema hollywoodiano già al centro de Il grande coltello. E in pieno sessantotto, cadute anche le ultime resistenze della censura, è possibile mostrare un’attrice non più giovanissima alcolizzata e lesbica. Questa è la reale condizione di June Buckridge, interprete di una paciosa e bonaria infermiera in una famosa soap-opera televisiva. Per volere dei produttori della serie che la ritengono ormai superata e professionalmente inaffidabile, verrà metaforicamente fatta morire sullo schermo, anticipandone così il definitivo declino anche nella vita reale. Un Viale del tramonto amarissimo per una delle figure di perdente più disperate del cinema di Aldrich.

TOSH EARNE
e SAM LAWSON
(Non è più tempo d’eroi, 1970)
Un inglese lavativo (Caine) e un americano imboscato (Robertson), che vanno d’accordo come culo e camicia, sono i leader involontari di questo gruppo di balordi scansafatiche guidati da un ufficiale insensibile ed inetto. Aldrich estremizza i suoi temi mostrandoci come la guerra sia sempre più vicina a un gioco macabro con un finale degno di una partita di football in cui i sopravvissuti gareggiano per conquistarsi una sporca ultima meta che vale la vita. Questa dozzina è ancora più sporca di quella del '67 e i suoi componenti sono pura carne da macello da mandare irrimediabilmente al massacro.

BARBARA BLANDISH
e SLIM GRISSOM
(Grissom Gang, 1971)
I Grissom non sono propriamente una famigliola da fiction, ma pur da criminali incalliti suscitano una certa simpatia, con quella mamma che mena peggio di un puglie superando in cattiveria persino la famigerata Signora Barker. Slim, il più giovane della famiglia, è uno psicopatico semi-ritardato che si illude di poter vivere ed essere amato dalla giovane ereditiera Blandish sequestrata in attesa di riscatto. Alla fine - e dopo molte vicissitudini violente - il loro rapporto forzato si tramuterà in una sorta di solidarietà tra reietti, lui criminale da condanna a morte e lei rampolla di famiglia la cui rispettabilità è ormai irrimediabilmente sporcata dagli eventi (come ribadito dal suo rigido padre nel finale). La bella e la bestia all’epoca della Grande Depressione.

McINTOSH

(Nessuna pietà per Ulzana, 1972)
Se Ulzana è la versione invecchiata e incattivita di Massai riveduta e corretta in base agli umori degli anni 70, il vero protagonista del film è però la guida dell’esercito McIntosh, ruolo che segna anche un nuovo capitolo della collaborazione tra Lancaster e Aldrich. Questo personaggio che convive con una giovane indiana è malvisto dagli ufficiali più spocchiosi, ma si dimostra esperto e saggio nel guidare la caccia ai ribelli indiani pur consapevole dell’assurdità e della pericolosità degli eventi. Un antieroe pacato e disilluso capace di accettare la morte fumando un’ultima sigaretta o di pronunciare una battuta memorabile come “Odiare gli indiani sarebbe come odiare il deserto perché non c'è acqua". All'epoca il film parve alludere alla guerra in Vietnam ma, visto oggi senza condizionamenti di sorta, risulta un western fiero e crepuscolare, in cui la violenza è figlia delle contraddizioni di una nazione basata sul colonialismo e sull'imposizione di un sistema sociale estraneo.  E il messaggio è come sempre chiaro e amaro: “Chi si oppone al sistema è destinato a soccombere”. Un film radicale nella sua visione di un mondo diviso tra uomini e caporali.

NUMERO UNO
e SHACK
(L'imperatore del Nord, 1973)
Con il passare del tempo Aldrich ha stemperato il suo furore adottando tonalità più intimiste e crepuscolari come ad esempio in questo film d’avventura che avvolge di cadenze epiche il classico tema del romanticismo della disfatta. La lotta spietata tra il vagabondo Numero Uno (Marvin) e il crudele capotreno Shack (Borgnine) che abbatte a martellate i viaggatori clandestini sul suo treno merci, presenta infatti una crescente attinenza con un altro grande del cinema americano come Sam Peckinpah. I protagonisti sono infatti due solitari individualisti che lottano più per sé stessi piuttosto che per la ferrovia di cui Shack è un tutore dell’ordine o per le schiere di hobos che hanno eletto Numero Uno come loro massimo rappresentante. Così facendo saranno entrambi respinti dalla società in cui vivono e che rappresentano, ma la sfida finale per una volta sembra esaltare la mitologia di londoniana memoria che permea tutta la pellicola.

PAUL CREWE

(Quella sporca ultima meta, 1974)
La metafora sociologica di un mondo diviso tra padroni e servi, con i primi che mandano al massacro gli altri, è fin troppo semplificata, in questo film di genere carcerario/sportivo, grazie alla famosa sequenza della partita di football tra detenuti e secondini. Ex star sportiva, Crew è un perfetto perdente che nella vita non ha trovato motivazioni e si è ridotto a fare il mantenuto. Dopo il misogino inizio confesserà, nel corso del racconto, che l’unica persona di cui gli è importato qualcosa nella vita è stato suo padre. Un soggetto inutile per la società che infatti lo ridurrà in catene. Ma lo scatto d’orgoglio finale è un invito a non darsi per vinti continuando a lottare contro un sistema ingiusto e classista.

PHIL GAINES
e NICOLE BRITTON
(Un gioco estremamente pericoloso, 1975)
Tornando al poliziesco Aldrich si concede un tono più romantico non particolarmente apprezzato. Ma questo film sottovalutato è più che mai permeato dal suo tipico senso di malinconico disincanto, con i due protagonisti (un poliziotto e una prostituta) insoddisfatti delle proprie esistenze che vorrebbero cambiare vita trasferendosi a Roma. Ma il destino è in agguato, per chi vorrebbe fare la cosa giusta aiutando l’uomo qualunque che ha subito un torno (Ben Johnson).

LAWRENCE DELL

(Ultimi bagliori di un crepuscolo, 1977)
Ancora una collaborazione con Burt Lancaster per questa incursione nel genere fantapolitico. Lawrence Dell è un generale dell’esercito americano che con due pittoreschi complici (tra i quali Burt “Maialotto” Young) prende il controllo di una base missilistica nel Montana e minaccia di dare inizio a una guerra nucleare se il Presidente Usa non renderà pubblico al popolo americano il contenuto di un documento top secret che rivela motivi e responsabilità del coinvolgimento degli Stati Uniti nella Guerra del Vietnam. Le scorie della sporca guerra raggiungo il cinema di Aldrich più che mai cantore del tramonto del mito americano ormai definitivamente offuscato da una società che può permettersi anche di sacrificare il proprio capo di stato, governata da un gruppo di notabili cariatidi talmente potenti da poter disporre tranquillamente della vita altrui.

I RAGAZZI DEL CORO

(I Ragazzi del coro, 1977)
Nella fase finale della carriera Aldrich sembra non credere più a nulla, come confermato da questo spietato e crudo ritratto della polizia di Los Angeles. Orami si ride anche sulla morte e sul razzismo, ma si tratta di risate macabre per questa congrega di disadattati sporcaccioni tutori della legge. Sono i classici reietti del suo cinema che nell’America degli anni 70 vestono però i panni dei tutori dell’ordine. Il breve quanto significativo prologo con Wood e Stroud nel sud-est asiatico ci conferma come il Vietnam sia stato il più grande trauma della recente storia americana e di come i suoi effetti negativi si siano ripercossi nella società. E quando i capi devono tutelare il buon nome delle istituzioni ecco che si può scegliere nel mazzo una manciata di uomini qualunque da sacrificare. E in questa condizione di sottomissione passiva la solidarietà tra sconfitti è l’unica speranza possibile, con un momento di autentica commozione quando a Spermula-Durning ormai in pensione esce una lacrimuccia di fronte alla lettera che gli hanno scritto gli ex-colleghi che nel finale si prenderanno comunque una piccola rivincita. Film sporco e volgare come il personaggio interpretato da Burt Young, il sergente italo-americano soprannominato Scugnizzo, che “tiene i pidocchi per motivi di servizio” ma è sinceramente partecipe e sentito.

ABRAM BELINSKI
e TOMMY LILLARD
(Scusi dov’è il West, 1979)
Dopo aver sbeffeggiato la polizia di Los Angeles, Aldrich deride anche il mito del western, genere da lui spesso frequentato e amato. Ma non si tratta di una parodia irrispettosa, bensì di una commedia in cui la sua proverbiale amarezza è stemperata nella visione di un mondo ormai incomprensibile. Lo sgangherato rabbino interpretato da Wilder e il rapinatore dal cuore d’oro che ha le fattezze di un Harrison Ford non ancora famosissimo, sono due candidi ingenui che vivono in un mondo crudele e che con perseveranza raggiungeranno comunque la loro meta.

HARRY SEARS

(California dolls, 1981)
Aldrich si congeda con un ultimo grande film. Alle soglie dei rampanti anni 80 il sogno americano è definitivamente sepolto dai soldi e dagli affari e non sembra più esserci spazio per i suoi antieroi, qui rappresentati da due lottatrici di catch e dal loro manager Harry Sears che ha il volto caratteristico di Peter Falk. Girano l’America con una macchina scassata e pochi soldi in tasca sempre alla ricerca della grande occasione che forse non arriverà mai. Riflettendo sul rapporto tra la violenza della realtà e quella dello sport, il regista ci saluta con un ultimo grande ritratto scanzonato e al contempo amaro di un’America marginale spesso rimossa e dimenticata dal cinema moderno (e Sears resterà l’ultimo dei suoi immortali perdenti).

APPROFONDIMENTO INSERITO DAL BENEMERITO ROCCHIOLA

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