Una tranquilla famiglia americana della buona borghesia viene sconvolta dalla morte di uno dei due figli, che lascerà su tutti un trauma profondo. Buon esordio alla regia per Robert Redford che si concentra sui drammi familairi celati (come spesso accade) dietro la patina della buona educazione e dell'autocontrollo. La buona sceneggiatura (specie la scrittura dei dialoghi) contribuiscono alla riuscita del film così come il cast eccellente che fornisce una prova di alto livello.
Per il suo debutto alla regia, Redford si confronta con un cupo dramma familiare che squarcia il velo dell’ordinario penetrando l’intimo dei rimorsi e della colpevolizzazione di se stessi (e degli altri) dopo un lutto. Straordinaria la densità dei personaggi interpretati con trasporto dai tre protagonisti: Donald Sutherland padre ponderato e mediatore, Timothy Hutton figlio in cui il trauma personale si sovrappone ai problemi dell’adolescenza, e Mary Tyler Moore - più nota al grande pubblico per la sit-com omonima - madre di raro egoismo e freddezza emotiva. Sofferto.
MEMORABILE: L’incredibile vuoto affettivo che separa madre e figlio: esemplare il loro imbarazzo nel farsi fotografare insieme.
L’esordio alla regia di Redford è un drammone familiare pieno di scene madri e di qualche luogo comune attraverso i quali il regista riesce comunque, ma solo a tratti, a coinvolgere lo spettatore. Il meglio è rappresentato dalla prova degli attori su cui spicca un giovane e promettente (in fututo purtroppo non si ripeterà a questi livelli) Timoty Hutton.
Ci entriamo davvero, nel dramma di Conrad e dei suoi genitori, e ci accorgiamo di quanto sia straziante proprio perché è occultato sotto una forzata parvenza di normalità. Dopo la morte del figlio, la famiglia si sforza di continuare a vivere come prima, ma niente è più come prima, e l'elaborazione del lutto sarà difficile per tutti, impossibile per qualcuno. La fine della normalità è il momento della verità in questo bel dramma corale, diretto con grande sicurezza, solo un po' lento nella parte iniziale.
Mary Tyler Moore è una madre raggelata dal dolore. Timothy Hutton un ragazzo con un enorme vuoto lasciato dalla morte del fratello. Donald Sutherland un padre che cerca disperatamente di rimettere insieme i cocci della famiglia. Una storia semplice, di gente comune, appunto. A volte sembra difficile per l'iperbolico cinema americano narrare in punta di piedi questo genere di storie (più adatte alla sensibilità europea), ma qui Robert Redford opera il miracolo e dirige con grande finezza tre interpreti sublimi per un film indimenticabile.
MEMORABILE: La resa scenica dell'impossibilità del contatto affettivo tra madre e figlio, in ogni sua sfumatura.
Esordio registico per Redford che si cimenta nella dura elaborazione di un grave lutto familiare che colpisce una normale famiglia. Narrazione sofferta realizzata con impegno ed attenzione ai particolari. Bella prova del cast con il giovane Hutton sorprendente per emotività e partecipazione.
Film più sottile della media mainstream americana, in cui tutto è didascalicamente spiegato (soprattutto tramite il mero personaggio-funzione dello psicologo) per non turbare troppo il pubblico americano con ellissi e sottintesi. Ma con classe inedita, con personaggi qua e là un po' troppo letterari, ma credibili. La grande forza è il personaggio della madre, incarnata da una meravigliosa Mary Tyler Moore. Film sofferto, doloroso. Quando il mainstream americano non era solo mercato.
MEMORABILE: "Forse quello che hai seppellito è stato il meglio di te stessa"... Uno dei dialoghi più dolorosi che il cinema ricordi.
Come spesso accade le opere prime sono le più riuscite. In questo caso Redford, come regista, svolge un compito molto ordinato, pulito e borghesemente elegante; come puliti, ordinati e borghesemente eleganti sono gli abiti, le dimore, i prati e le auto dei protagonisti, che non riflettono assolutamente i drammi interiori di ognuno di loro, ma anzi cercano di mascherarli sotto apparenze visive piacevoli e perfette. Ma i drammi ci sono e non si possono ignorare, vengono inevitabilmente a galla e forse solo allora si possono risolvere.
Un padre debole, una madre distaccata, un figlio travolto dall’angoscia: è questa la gente comune descritta da Redford (in un maturo debutto registico) all’indomani della morte dell’altro figlio e del tentato suicidio del fratello. Bordate di dolore e di emozione in questa cartografia delle dinamiche di elaborazione del lutto, giocate tra amori e rimorsi, colpe e speranze. Un film poderoso e impetuoso, incline al commovente ma senza lagne (fermandosi un attimo primo del mélo), con un cast eccellente a cominciare dal giovanissimo Hutton.
Il dolore di una famiglia americana che lacera la propria vita quotidiana. Gente comune è il ritratto di questo e, pur essendo un po' sopravvalutato, riesce a coinvolgere grazie anche all'interpretazione dei tre attori principali: Hutton, Sutherland e la Moore (bravissima).
Una parte iniziale eccessivamente lenta rischia di respingere lo spettatore ma poi si riprende e aiuta a entrare in sintonia con i personaggi di questa amara storia di elaborazione del dolore e di sorrisi di facciata. Redford dirige con apparente distacco, ha il grosso merito di non cercare i colpi a effetto che tanto cinema americano ama ma talvolta sembra anche troppo sobrio. Comunque bravi gli attori e quando la pellicola tira le fila non risparmia colpi ed emoziona.
Reduce da un soggiorno in un ospedale psichiatrico a seguito di un tentativo di suicidio, Conrad torna a vivere presso i genitori nella loro bella casa, continuando però a manifestare un profondo disagio... Esordio alla regia per Redford con un dramma che si dipana come un thriller psicologico e si avvale di un cast eccellente: se il bravo Sutherland irrita e commuove come padre/cuscinetto, Tyler Moore, madre inaffettiva tutta intenta a salvare le apparenze, e Hutton, torturato dalla sindrome del sovravvissuto, danno vita alle migliori prove delle rispettive carriere.
Gente comune, gente come gli altri. All'apparenza niente di anormale, tutto nella norma, ma dentro parole non dette, sentimenti inespressi, tragedie mai superate. Questo film è un lamento straziante che non trova mai sfogo, un grido esanime che non viene mai udito. E tra inconciliabilità inconciliabili, solamente cercando fuori dalla famiglia Conrad può trovare conforto e instaurare un rapporto autentico con lo psicologo che lo segue. All'interno non riesce a esprimersi come vorrebbe, a essere compreso per quello che è.
La morte del figlio prediletto causerà la deflagrazione dei rapporti tra gli altri familiari. A parte la debole fase psichiatrica e scolastica, le dinamiche tra i singoli sono ben dirette e analizzate. Trio di protagonisti eccellenti (nota per chi ha scritto i dialoghi alla Tyler Moore) che non utilizza pietismi e che mostra l’ipocrisia che l’importante è la facciata esteriore. Redford evita melodrammi e condanna l’individualismo americano; forse frettoloso il finale.
MEMORABILE: La lite tra la Tyler Moore e Sutherland al golf club; La seduta dallo psicanalista di Sutherland.
La morte di uno dei due figli si ripercuote all'interno di una famiglia borghese americana, soprattutto sul fratello che si colpevolizza di essere sopravvissuto, ma anche sull'equilibrio tra una madre fredda e anaffettiva e un padre protettivo ma debole. Un drammone che mette in campo quesiti sulla responsabilità e sul persistere del senso di colpa, intervallato da continui flashback e pizzose sedute analitiche che tentano di risolvere con la ragione un complesso groviglio di sentimenti. Bravo Hutton, mentre Sutherland e Tyler Moore sembrano un po' in disparte e tenuti a freno.
Robert Redford è regista singolare e lo dimostra subito. Una madre apparentemente anaffettiva; un padre attento e accudente; uno "strizzacervelli" (nella cultura americana esiste questa evitabile parola) ben connotato. Racconta le cicatrici del senso di colpa; il disagio esistenziale dell'adolescenza sul quale si innesta la tragedia familiare; la depressione; la famiglia borghese e disfunzionale; gli incontri con lo psicoterapeuta, che in quegli anni in particolare era tabù e stigma sociale. Finale composto e appropriato, in armonia con la umanissima sensibilità del resto del film.
Un buon esordio per il Redford regista, che narra le traversie relazionali di una famiglia dopo che due disgrazie fra loro legate (la morte di un figlio in un incidente in barca e il tentato suicidio del fratello, sopravvissuto alla tragedia e logorato dalla colpa) ne hanno compromesso per sempre l'armonia. La psicologia di ciascun personaggio viene debitamente esplorata, anche a costo di certe lungaggini dialogiche che, soprattutto durante l'ultimo atto, tendono ad appesantire la narrazione. A ogni modo, cast pressoché inappuntabile e ottime (nonché appropriate) atmosfere autunnali.
MEMORABILE: La tragica notizia appresa da Hutton al telefono, con un brano della colonna sonora che deve aver ispirato Renzetti per il tema di Bambola assassina.
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Uno speciale 45 giri è stato inciso con il brano principale usato anche come sottofondo per lo spot della linea di profumi Henry Cotton. Direttamente dalla prestigiosa collezione Lucius, il 45 giri in questione:
Riporto la tagline/strillo della locandina del film:
"Everything is in the proper place. Except the past."
"Ogni cosa al posto giusto. Tranne il passato"