Discussioni su Sissignore - Film (1968)

DISCUSSIONE GENERALE

3 post
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  • Paulaster • 5/06/15 01:26
    Controllo di gestione - 97 interventi
    Ho contattato Benvenuti tramite Fb e gentilmente mi ha risposto con "No, non sono io quello con l'abito bianco, ma capisco dalla somiglianza che potevi essere tratto in inganno. A.B.".
  • Zender • 5/06/15 07:56
    Capo scrivano - 47826 interventi
    Ahah, ok, grazie mille Paulaster. A questpo punto sposto davvero in "curiosità".
  • Lodger • 12/03/19 21:37
    Pulizia ai piani - 1563 interventi
    Recensione da "La Stampa" del 1/12/1968:

    - CONTIENE SPOILER -

    Il pericoloso vizio di dire «Sissignore»
    Un divertente film di Ugo Tognazzi


    (Cristallo) — In Sissignore, già recensito in queste colonne da Saint-Vincent, terzo film diretto da Ugo Tognazzi dopo Il mantenuto e Il fischio al naso, è notevole l'analisi del rapporto di sudditanza che taluni uomini si impongono da sé, in forza di una monade per così dire fascistica che opera in loro alla rovescia. L'autista Oscar sente e dice la parola «sissignore» come un vero composto, un tutto; e la dice col cuore anche quando le labbra tacciono. Il suo padrone, un finanziere senza scrupoli, profitta largamente della situazione. Ha urtato con la sua «fuori serie» un pullman carico di cinesi, undici dei quali rimangano secchi. Ebbene, non gli ci vuole molto sforzo per convincere il devoto Oscar ad accollarsi la colpa. Si capisce che lo colma di regali; e quando dopo tre anni esce di prigione, l'autista fruisce d'una moglie deliziosamente ochetta, d'un suntuoso appartamento, e della carica di consigliere in una fabbrica di bibite. Ma anche così, il vecchio rapporto non muta. Oscar continua a dire «sissignore» a tutti gl'imbrogli cui lo chiama il tiranno; finché in quell'uomo di paglia si ridesta il cuore e con esso la dignità. Oscar s'innamora nientemeno che di sua moglie, la quale è cosa del padrone; ma costui, per mezzo di un maggiordomo, vigila, impedisce che il matrimonio sì consumi. Restano al pover uomo le soddisfazioni professionali che gli crescono a dismisura (con quel tanto di paradossale che comporta la divertente sceneggiatura di Malerba, Guerra e Indovina), ma non sono che lustre dietro cui il despota prospera e trionfa, non lasciandosela mai fare sul punto di Mary, l'amante sua e moglie del succubo: tanto che alla fine ritroviamo Oscar un'altra volta in carcere per devozione al principale, ma allietato dalla notizia che presto «sarà padre». Sia pure tra gli eccessi, aneddotici, che sono poi i limiti, della «commedia di costume», il film sviluppa con arguzia e senso di verità il tema dell'obbedienza divenuta abito; la quale fra i malanni del nostro vivere non è poi il minore. A ogni nostro «sissignore» i farabutti crescono d'un palmo; e le rivalse della sensibilità e dello spirito (Oscar non ne è sprovvisto) nulla giovano alle vittime. L'aver salvato i risultati spesso fini di un'osservazione concreta, dalla facile rapina del paradosso spettacolare, è il primo merito di Tognazzi, regista satirico, qui prevalentemente rivolto a divertire senza sgomenti surrealistici; il secondo, è di aver fatto la parte giusta a Tognazzi attore, armonizzandone la pastosa sobrietà col tumultuoso risalto di Moschin e la soffice sveltezza di Maria Grazia Buccella. Ma sussiste il difetto capitale del cinema fatto dagli attori: un andare sempre in linea retta, indifferente agli ostacoli, senza svoltare mai.
    (l.p.)

    Fonte:
    http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_lastampa/task,search/mod,libera/action,viewer/Itemid,3/page,10/articleid,0123_01_1968_0276_0010_7802812/